Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


venerdì 27 gennaio 2012

L'erbario vivo di Mister Knight.


Non amo particolarmente la fotografia di moda. Ne apprezzo tecnica, gusto e stile, ma di solito tutto finisce lì. Troppa perfezione, troppa finzione, troppi filtri -ma io ho il gusto dell'imperfetto, e donc è un po' normale.
Va bé, Mister Knight, Nick Knight è uno di quei super fotografi di cui magari il nome non ci dice nulla, ma appena ne vediamo un'immagine, subito sappiamo che l'abbiamo già vista, da qualche parte e che è una casella di un enorme puzzle che compone -volenti o no- la nostra sovraffollata geografia visiva di umani del XXI.
Poi mi è capitato davanti agli occhi Flora e ne sono rimasta in qualche modo ipnotizzata. Non solo per la strana qualità extraterrestre delle fotografie, ma anche per la meraviglia che sempre si genera dalla contaminazione tra mondi.


La storia è semplice. Mister Knight va al Museo di Storia Naturale di Londra, nella celeberrima biblioteca delle piante pressate. Lì incontra la dottoressa Sandra Knapp, botanica e curatrice della collezione, e incontra anche un erbario di 6 milioni di esemplari, raccolti con cura negli anni.
Non se ne allontana più, e per più di 3 anni  prova e riprova a catturare la bellezza aliena, e molto meno addomesticabile delle modelle. Il risultato è questo libro, e queste parole:

"Gran parte dell'immaginario preconcetto che avevo sulle piante era legato alla natura effimera della loro bellezza: colori vivaci e strutture meravigliose che appassiscono e raggrinziscono fino a diventare irriconoscibili forme monocrome. Ma queste piante non sembravano morte, anzi, sembravano emanare vita. Riuscivo a vedere il movimento del vento che soffiava attraverso le foglie e i petali, a sentire l'acqua scorrere al loro interno e i fiori cercare di girarsi e aprirsi ai raggi del sole. Sparita la normale fragilità e la tragica contingenza, queste piante hanno assunto una nuova certezza di vita, quasi una certa audacia. Sono riuscite a sottrarsi al loro destino" .








Ora mi capita di guardare le fotografie di Nick Knight in un altro modo, e le sue modelle come fiori in erbari. Finalmente vivi.

Grazie a Francesca, fotografa, molto interessata alle cose vive, per la segnalazione.

domenica 22 gennaio 2012

D'acqua.


Quasi magiche, vivono un po' dappertutto, non sono disturbate dai termosifoni, dalle correnti d'aria e neanche dalla scarsa luce invernale di casa mia. Sembrano di un altro pianeta, crescono moderatamente poco, senza mai però apparire stentate, assumono forme sinusoidali e graziose, e mai sono toccate da parassiti, depigmentazioni, secchezza fogliare. Ai veri giardinieri non danno granché soddisfazione, perché chiedono e richiedono quasi nulla, ma io le amo tanto, per le loro radici anfibie e per il loro impegno di trasformazione e per quella trasparenza che riluce nelle giornate di sole.


Le piante nell'acqua vivono nei barattoli della marmellata e dei sottaceti, nelle vecchie ampolle da farmacia, nelle bottiglie del gin. Io cerco il vetro trasparente perché adoro guardare le geometrie delle radici, ma forse starebbero bene anche in quello scuro.



Alcuni dicono che tutte le piante potrebbero trasformarsi in ninfee, ma a dire il vero a me riesce bene solo con il classicissimo potos, con la miseria (tradescantia), con i lucky bamboo cinesi e con tutti i tipi di edera. Di solito le mie piante d'acqua sono piccole talee senza radici, e quindi nascono già acquatiche. Per le altre la trasformazione è solo un pochino più complicata, ma tutte si adattano, a me sembra con gioia, al loro nuovo mondo.




Cosa occorre:
Acqua (da non cambiare mai, ma soltanto da aggiungere ogni tanto), sassi o conchiglie o pezzi vetro colorati, per creare sostegni e soprattutto per bellezza, un pizzico -quando mi ricordo- di polverina da idrocoltura, per nutrirle un po,' e basta.

Poi guardarle, come si guarda un acquario. Perché sembrano pesci, stanno solo più ferme.


martedì 17 gennaio 2012

Carte geografiche di luoghi non ancora conquistati.

Grazie a Dona e al commento del post precedente, ho deciso di rimanere ancora un poco a Venezia, almeno con l'immaginazione. La casa delle girandole è un luogo davvero strano, che attiva pensieri sul modo di abitare il mondo, o di coltivarlo, se si preferisce. Sicuramente di lasciare una qualche impronta personale, che diventi un landmark o una dichiarazione di indipendenza (al di fuori delle tendine ocra stabilite in assemblea condominiale e al di fuori anche di un’estetica condivisa, o anche del “buon gusto”, parfois).
I visionari creatori di mondi fantastici, che dialogano o confliggono con il paesaggio circostante, forse egocentrici, sicuramente eccentrici, sono dominati dal desiderio di costruire intorno a sé mondi su misura, in cui riconoscersi. Demiurghi scultori di propri paradisi, eredi di una lunga tradizione di sovversione ai canoni condivisi, trasformando un angolo o un fazzoletto di mondo, contribuiscono alla sua varietà e alla trasformazione di spazi in luoghi riconosciuti, e al tempo stesso alieni.


E le girandole, mobili talismani dell’inaspettato, ricordano a tutti che il mondo potrebbe anche essere disegnato in un altro modo. E soprattutto che qualcuno lo fa, seguendo una propria e per niente immaginaria carta geografica di luoghi non ancora conquistati.

 Ho un bellissimo libro di Taschen, Fantasy Worlds, che racconta questi mondi in tutta la loro poetica sovversiva. Penso che prossimamente ne racconterò qualcuno e infatti ho inserito la categoria fantasy worlds (che mi piace molto di più di “mondi immaginari”).

giovedì 12 gennaio 2012

Nanetti, gatti e girandole:i giardini anarchici di Venezia.

C'è che mi è stato donato anche un libro, che si chiama Verde Venezia, che tratta di giardini nascosti tra calli e canali. E che poi Venezia, all'inizio di gennaio, era una vecchia gatta a riposo, sonnacchiosa in queste poche settimane di sua vacanza prima dello spolvero del Carnevale. C'è che ero a cercare suggestioni fuori dai segnali "rialto a destra, san marco a sinistra".
E così ho fatto molti pensieri, al ritmo dei passi, perché tanto Venezia ti obbliga a camminare, e camminare ti obbliga a pensare.
E per esempio, ho pensato ai giardini splendidi e decadenti e nobili chiusi da alti muri - descritti nel libro per la mia immaginazione- che non riuscivo a vedere neanche salendo sui gradini e che concedevano, al massimo, qualche foglia o un'ombra di verde attraverso i cancelli.

Ho pensato che sarebbe stato bello, scandinavianamente, poter entrare e stare un po' lì, tra le statue muschiose.
Ma poi ho pensato che anche no, che non ho davvero bisogno del bersò in ferro battuto della contessa con quattro cognomi o del glicine maestoso della famiglia "di notai da 5 generazioni".
Quello che ho visto, e amato, nella mia Venezia proletaria della Giudecca o del fondo di Cannaregio, è un verde anarchico e poetico, di giardini poveri, di orti e di nanetti. Disordinato, troppo ornato, tremendamente vivo, tra gatti e macchie d'umido.







Mi sa che è questo il mio mondo. E in quei giardini, tra gatti e girandole, la prossima volta chiederò di entrare.

martedì 10 gennaio 2012

Allemansrätten.

Volevo scrivere un post sulla mia flanerie veneziana, e così farò domani. Oggi invece mi sono lasciata trascinare da ricordi di chiacchierate universitarie, in temi solo apparentemente lontani da calli e canali. Insomma, ripensavo all'Allemansrätten svedese, anche se in realtà il nome di questo straordinario diritto scandinavo me l'ha provvisto l'impagabile wiki. Insomma, l'Allemansrätten è un diritto che sarebbe piaciuto a Chatwin e a tutti i camminanti, e a tutti quelli che passano il mondo guardandosi intorno e non vogliono muri e barriere a interrompere il viaggio.
E' il diritto del pubblico accesso. In Svezia, ognuno può entrare -con rispetto, in punta di piedi e senza lasciare cartacce- in boschi, terreni, parchi e in qualsiasi luogo naturale privato. Può camminare, osservare fiori, nuotare nei laghetti, portarci i bambini a guardare le farfalle. Può addirittura piantare la tenda e starci una notte (se invece vuole stare di più, va bé, deve chiedere).
Il senso è che il diritto alla bellezza naturale non è solo di chi può comprarselo, ma di chiunque, indipendentemente dal fatto che viva in una casa popolare o in un castello.

Domani cercherò di raccontare perché ho pensato proprio a questo, nella mia ricerca di giardini veneziani.

martedì 3 gennaio 2012

Un lago che assomiglia a un orto.


Forse per simpatia degli elementi, dal momento che sono in partenza per un piccolo viaggio veneziano, alla ricerca di giardini sentimentali tra calli, acqua e canali. Forse per serendipity e sicuramente per un dono, ho incontrato gli orti galleggianti del lago Inle, in Birmania.
Lago generoso, di cui sono figli e custodi gli Intha, un gruppo di circa 70.000 persone che delle sue acque vivono, nelle sue acque pescano. E che le sue acque coltivano.


I floating gardens sono isolette di pochi metri metri quadrati, costruite con alghe, fango, gigli selvatici e canne di bambù, che vengono coltivate con cura, da giardinieri che si spostano in barca tra una pianta e l'altra.


Sopra crescono rigogliosi pomodori, cipolle, insalata, riso, ma anche fiori colorati per ornare le case e i templi, tutti perfettamente abituati ad avere le radici sempre a mollo, proprio come i loro orticoltori.

foto dalla rete (ringrazio i viaggiatori)