Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


giovedì 28 giugno 2012

Nordovest bardato di stelle.


Paolo Conte è un signore gentile e schivo, che quando è in piedi a cantare non sa dove mettere le mani, che si nasconde dietro il pianoforte a coda con vezzi da piemontese, e si nasconde tra le mani alle mani che applaudono, è elegante di nero vestito e ha una faccia faccia, di quelle che basterebbe. Con una faccia così, già scrivi una storia, persino se non scrivessi canzoni.

Polmone o cuore, "eccitata e ninfomane", l'orchestra pulsa come organo entropico, e per me, che non capisco il jazz, ho sempre voglia di fare la pipì, e la musica in generale la sento solo tra stomaco e pelle, è così che risuona, come una questione che centra soltanto con la densità dell'aria e finalmente la mancanza di vuoto, o di rarefazione
A Villa Arconati, tra zanzare e campi e una città che trascolora in nulla di nostalgia d'altrove, e leoni di pietra come sfingi smemorate di segreti, Paolo Conte si è dato, un po'. Non troppo. Con quella discrezione antica che non fa spingere sull'acceleratore quasi mai, e quando lo fa, nasconde la faccia e dice basta con le mani, ha lasciato, in me, un'ansia di pioggia, come quando nelle campagne il vento e i tuoni e l'elettricità e il profumo intenso di terra sono presagio tradito di temporale imploso. E i matti restano matti, e i cani torvi tornano a dormire nervosi nelle loro botti di lamiera.

Così l'emozione cresce come pasta lievitata senza mai liberarsi in catarsi. Pungolata, eccitata e poi fermata all'improvviso, l'emozione un poco intossica, e si ferma nelle vene delle braccia (o dallo stomaco arriva in gola, senza uscire in ululati o canto).

Per me, piemontese di nordovest, è familiare e conosciuta la geografia emozionale di strade gelate e paracarri, aranciate al bar, lune e aie e buio che sa di lontano. Diavolo Rosso è la narrazione di un luogo preciso e di alberi genealogici di lavoro, fatica e parole poche, dove il sentimento è lancinante e trattenuto, e la voce esce forte e alta e stonata solo nelle chiese, la domenica mattina.
Le chitarre ossessive, la ripetizione, l'ammaestramento di emozioni ritmiche sono l'unica concessione possibile a una catarsi tenuta alla catena come cane da pagliaio.

Perchè, insomma, non facciamola lunga.

Quelle bambine bionde
con quegli anellini alle orecchie
tutte spose che partoriranno
uomini grossi come alberi
che quando cercherai di conviencerli
allora lo vedi che, sono proprio di legno
Diavolo rosso dimentica la strada
vieni qui con noi a bere un'aranciata
contro luce tutto il tempo se ne va…
Guarda le notti più alte
di questo nord-ovest bardato si stelle
e le piste dei carri gelate
come gli sguardi dei francesi
un valzer di vento e di paglia
la morte contadina
che risale le risaie
e fa il verso delle rane
e tutto 
arriva sulle aie bianche
come le falciatrici di raccolto
Voci dal sole altre voci,
da questa campagna altri abissi di luci
e di terra e di anima niente
più che il cavallo e il chinino
e voci e bisbigli d'albergo:
amanti di pianura
regine di corriere e paracarri
la loro, la loro discrezione antica
è acqua e miele…
Diavolo rosso dimentica la strada
viene qui con noi a bere un'aranciata
contro luce tutto il tempo se ne va…
Girano le lucciole
nei cerchi della notte…
questo buio sa di fieno e di lontano
e la canzone forse sa di ratafià…

martedì 19 giugno 2012

Trappole arboree.

 foto di Francesca
 A lungo ho riflettuto prima di decidere di scrivere su questo argomento. Troppe spine e troppa crudeltà secolare, come tagliole sotto le foglie o castelli incantati di principesse folli. Sicuramente troppa morte.
Ora non più. I roccoli, da qualche tempo, hanno perso quasi ovunque la loro caratteristica di essere trappole arboree per uccellini distratti, e sono diventati luoghi di avvistamento, inanellamento e di protezione.


Non hanno perso, invece, il fascino di architetture vegetali incantate, simili a cattedrali o a luoghi di culto silvani o a progetti di land art di qualche medioevo da signore degli anelli. Compaiono all'improvviso, su una collina, come fossero stonehenge vegetali abbandonati. Disorientano e un poco perturbano per l'ibridazione tra morte e vita e tra costruzione (dis)umana e lussureggiante vita boschiva.


Oggi i passeri nidificano sui rami contorti, senza compagnia alcuna di specchietti per le allodole, ma noi, entrando, parliamo a bassa voce, con rispetto.


giovedì 14 giugno 2012

Il funerale della balena.


Forse avrebbe preferito alghe e anemoni di mare, ad accompagnare l'ultimo viaggio, e schiere ordinate di pesci pilota, nuvole lattiginose di plancton, Giona, Achab e anche Pinocchio in corteo silenzioso. Forse invece non gliene importa niente, come è probabile un po' in generale.
Ma fa bene al (nostro) cuore sapere che da qualche parte, nel mondo, si celebra il funerale di una grossa balena, tra lacrime e lanci di fiori di giardino, come al matrimonio di una sposa in sovrappeso.
Dal Corriere.

sabato 9 giugno 2012

Fiori e miracoli (a Le Havre).


È uscito già da un bel po' e tutti ne hanno parlato. Sono io a essere anacronistica, e se questo fosse uno spazio con ambizioni up-to-date, non sarebbe il caso di parlarne ora. Ma nel mio spazio le suggestioni arrivano quando arrivano.
In Miracolo a Le Havre, come in quasi tutte le cose belle, ognuno può trovare un proprio percorso di sguardo, attraversarlo secondo sensibilità e nostalgie o tenerezze personali. Io l'ho guardato ieri, e poi di nuovo oggi a fotogrammi.
C'è la storia, naturalmente, carica di una poesia essenziale e salvifica. C'è una specie di fiducia nelle piccole cose. Un grande amore, una grande amicizia, un bellissimo rapporto con un cane femmina intelligente e partecipante. I bar, i tipi da bar, il porto, le signore sfiorite e sempre meravigliosamente piene di linfa come spesso sono le francesi. Gli africani e i poliziotti e i pescatori. La malattia, la speranza e tanti miracoli (non solo uno). C'è persino un ananas.


Su tutto, una luce accarezzante che si posa su persone e cose, dagli interni pastello, alle tendine ai vasi poveri anni 50, alle strade di notte. E una dignità del vivere che arriva immediata, e consola senza essere consolante.

E poi ci sono i fiori, presenza discreta e costante. Fiori umili donati o appoggiati sul bancone di un caffé. Gialli ranuncoli o garofani stanchi, rose in vasi troppo piccoli, che svolgono perfettamente la loro funzione di agenti silenziosi del miracolo.



 

 La fiera fioraia, "manager dell'anima" di un vecchio rocker.


E naturalmente la fioritura inaspettata dell'esile ciliegio del cortile, metafora perfetta di tutti i miracoli del mondo.

lunedì 4 giugno 2012

Semi con la valigia.


 questi bellissimi semi sono in vendita qui
 
I semi sono quasi la cosa più magica che c'è. Metafora così concreta di vita in potenza e di potenza della vita, grumi di energia esplosiva (per questo le bombe di semi sono l'unica arma che concepisco e che prenderei tra le mani) e concentrati del mistero in cui viviamo immersi, esistono e si trasformano, caldi di terra, umidi di humus, risposta di speranza alle preghiere di ogni religione.
Dormono, nascono e si trasformano e poi rinascono, spinti dal vento o dal volo degli uccelli a colonizzare fazzoletti di terra o cornicioni, aree dismesse, palazzi in costruzione.
Non chiedono, ma vanno, carichi della necessità di un messaggio di qualche dio da noi dimenticato.


Dei semi occorre aver cura, come tesoro non nostro e a noi imprestato. Per questo io amo la cura, sì, la cura, di chi li impacchetta per bene, scegliendo il carattere e il disegno. Di chi scrive delle storie, e le istruzioni -la luce, i capricci, la descrizione di cosa saranno e quello che vorranno.



E vorrei, in un tempo non troppo futuro, scrivere le loro storie, su pacchetti di carta da pane, e mandarli per il loro mondo con un piccolo bagaglio.