Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


mercoledì 28 maggio 2014

Appassiflora (est modus in rebus).

Appassì, all'improvviso e senza avvertirmi. Senza mostrare una brutta cera, senza dare segni di stanchezza o esaurimento, appassì una mattina di maggio, proprio nel pieno della sua giovinezza e di uno dei miei fantasmagorici entusiasmi.
Dopo che per giorni ne andavo decantando la bellezza, la rusticità, la sauvageté da jungla, i peduncoli a cavaturacciolo che maleducati avvolgevano papiro e pisello, la straordinaria vitalità che la portava a una crescita favolistica da fagiolo magico. Dopo che -in maniera un po' repentina e parecchio superficiale-aveva colonizzato il mio cuore vegetale soppiantando all'istante caprifoglio e vite vergine.
E soprattutto, subito prima di donarmi il suo fiore inquietante e alieno, i cui boccioli molli e afflosciati se ne stavano penduli come promesse mai mantenute.
La passiflora, ora l'ho imparato a sue spese, non è pianta da piccolo zoo ed è stata per me l'emissaria di una nuova saggezza, spero duratura, almeno per un poco. Perché di bello, nelle piante come in molte altre cose della vita, c'è che, ogni tanto, cessano di essere solo loro stesse, per diventare invece  storie zen, oracoli o nuove lenti. Se è vero, ad esempio, che continuo a credere che "tutto è possibile", non è invece vero che "tutto è fattibile", o magari è vero, ma non è giusto. Coltivare una passiflora in un vaso da nasturzi, sperando che vi si adatti con gioia e generosità è semplicemente una stupidaggine, dettata dall'ostinazione a non vedere il mio piccolo balcone per quel che è. Un piccolo incantevole balcone.
L'ho capito (forse), che non è piantandovi una quercia che posso trasformarlo nel parco della villa reale di Monza, non è tenendo un delfino nella vasca da bagno che posso avere il mio mare personale.

E così, immersa in una rivoluzione copernicana, sto guardando con nuovi occhi gerani zonali e annuali colorate, lasciando i fiori alieni e le loro fantastiche braccia ad altri luoghi e altri momenti.

giovedì 8 maggio 2014

Piove al parco.


Se piove sembra che abbia sempre piovuto e che sempre pioverà. Quando piove una sospensione della logica e del buon senso porta a estremizzare nei discorsi una condizione transitoria, passeggera, interlocutoria e -almeno a Milano- non così frequente.
Non parlo della pioggia distruttiva, spaventosa e cattiva, ma della pioggia primaverile noiosa che crea pozzanghere ai lati delle strade, che infreddolisce e spinge i pensieri a cadere verso il basso, come fa lei. La pioggia che uno esce solo perché deve, se no sta in casa a guardarla dal vetro, o a non guardarla del tutto, che per l'umore dei metereopatici è meglio dimenticarsene.

Io penso, invece, che proprio con quella pioggia lì valga la pena uscire. Se si è in campagna, guidati dal profumo di erba bagnata e di temporale, a cercare lumache e a riempirsi gli occhi del verde virente che solo lei sa dipingere sulle foglie.
Se si è in città, andare controcorrente, e andare al parco. Pochi lo sanno, ma questo è uno dei sistemi più a portata di mano per entrare nello specchio di Alice.
Trasfigurato dall'acqua e dall'assenza di esseri umani, il parco rinselvatichisce per qualche ora, si dimentica la sua funzione sociale di zoo di piante per cani e bambini, torna a essere lembo di foresta, avamposto del bosco. Pizzicate dalla pioggia, le corde degli alberi suonano per piacer loro, le margherite bevono sorsi di gocce, i merli volano bassi e persino i lombrichi escono in superficie. Tutti si specchiano nei laghetti effimeri e anche gli scivoli e le altalene, lucidi e grondanti, dismettono i loro abiti da libro illustrato per l'infanzia e diventano animali in libertà, a godersi il mondo senza gli umani, tutti in coda ai semafori o dietro i vetri.