Che coltivare un orto sia forse coltivare il mondo e che innaffiare un ciclamino sia un atto di resistenza sentimentale, un dire io sono qui, ora, e mi prendo cura.


giovedì 26 maggio 2016

Struggimenti da balcone.


Di necessità occorre far virtù. Ce lo insegnano interi catechismi di prozie sagge e favole moraliste di Esopo. E così una volpe che non riesce a raggiungere i gonfi acini d’uva sostiene sostenuta che “tanto sono acerbi”. Io –sempre- sono stata del partito di Pollyanna e del suo “tanto meglio così”, ibridato con una tendenza che tende a crescere verso il pensiero magico e le balzane trasformazioni del reale. Quindi non mi preoccupo troppo per la mia attuale mancanza di un giardino da coltivare, o di un terrazzo, o di un cortiletto e, a parte occasionali aghi nel cuore, mi curo del mio balcone e sogno placidamente vastità. Questa premessa era necessaria, perché mi è importante rimarcare che chi vive la mia situazione non è per forza “invidioso”, piuttosto necessita di molta elasticità e si trova continuamente a dover affrontare problemi pratici e anche filosofici di non piccola portata. Ne esporrò alcuni (dilemmi, problemi, quesiti, posizioni ideologiche precarie, affermazioni etc.), ai quali solitamente si accompagna anche il loro contrario. Questo allenamento al pensiero complesso serve, nella vita.

-Beh, però avere un balconcino è comodo, è più facile seguire la crescita delle proprie piantine. Poche e ben curate.

- Olà, eccheccavolo. Il balcone mica mi ferma, sovrappongo fioriere, attacco bancali, faccio orti verticali, infilo vasi nei vasi e rampicanti pensili.

- Dopotutto su un balcone si possono coltivare anche querce..basta conoscere i rudimenti della potatura giapponese.

- Quest’anno non compro piante, mi autogestico, autoproduco, semino avocado, nespole, ciliegie, poi taleizzo, poi dissemino.

- Mh. Forse un balcone è più adatto alle annuali (o presunte tali). Petunie, tagete, lobelie, begonie, dalie, viole del pensiero, margherite, belle di giorno, di notte, di vetro. Evviva i fiorellini! Con i loro colori offrono la primavera nel cemento.

- Mai cederò ai fiorellini. Sono terribili quei cuscini sgargianti di un kitch senza perdono.

- Verde, solo verde. Due o tre varietà (quelle che mi vengono bene e che mi autoproduco). Barcelona role model.

- E adesso che ho i papaveri, tra un mese che sono sfioriti, che faccio?

- Da Orticola torno stravolta in tram con 5 piante di cui non ricordo il nome, ma che certamente sono erbacce (molto belle, per carità). Vita attiva brevissima, poi scompaiono lasciando tristi vasi nudi.

- Come si fanno a fare le stanze in un balcone di un metro per tre?

- Che belli i balconi quasi vuoti!

- Che belli i balconi stra-pieni!

Il balcone serve a sperimentare, se no che divertimento c’è?

-Non amo i sempreverdi.

-Amo i sempreverdi.

- Stavolta che ho il sole, riempio il balcone di rose.

- Basta. Impeditemi di comprare un’altra rosa.

-Non avrò alcuna pianta banale.

- Se tutti hanno le stesse piante ci sarà un motivo.


E potrei andare avanti per sempre, io con il naso in su per strada a guardare come fanno gli altri, a sognare terrazzi e giardini dove ci sta –quasi- tutto e magari anche le ninfee. A rimettere in discussione la mia idea personale di giardino tascabile, ad amare tremendamente questo e il suo contrario (come un balcone selvatico di sedum, che ho appena incontrato, e che in questa stagione fiorisce di cascate di nasturzi, e null’altro). A comprare piante al supermercato e raccogliere talee. A fare esperimenti.
Per ora, di tutto, sono rimasta coerente solo all’assenza di gerani. E all’assenza di rosso. Ma chissà. Quando avrò un terrazzo, vedremo.

giovedì 12 maggio 2016

Regine d'attesa.


Che poi, a essere sincera, mica mi sono mai davvero piaciute. Volgarotte, pretenziose, divenute dozzinali nel loro essere dive da supermercati. Recise poi, sono terribili. Spocchiose e fasulle, con quell’aria da cocker spaniel a una fiera di provincia e la vacua prosopopea delle reginette di bellezza. Nascono imbellettate e vestite da cerimonia, e così durano, a lungo. Immutabili per settimane e poi, zac, caduche come foglie d’autunno di fiori di carta velina.
Poi, l’attesa. Ed è quasi tutto lì il segreto del loro fascino ambiguo e irresistibile (per tacer dello spudorato disporsi dei petali, ovvio).
Perché loro sono la quintessenza dell’attesa, profumano letteralmente di attesa. Attesa che può durare una stagione o una vita intera, come certe cose della vita, attesa piena di fede, o al contrario fatalista, attesa smemorata o trepida, attesa riempita di attesa. Quando cade anche l’ultimo fiore, e il lungo ramo svetta inutile e sgraziato, le orchidee, orbe dei loro occhi extraterrestri, si svestono dell’essere piante per divenire illusione pura, o promessa senza paracadute. “Tornerò, aspettami”, dicono gli amour de jeunesse.
Poi il vuoto, riempito da cure sacerdotali prive di garanzia di miracolo, come chicchi di riso e incenso sugli altari domestici.  Noi, vestali, a bagnare, inumidire, irrorare, nebulizzare. Costruire zattere aeree, concimare, non concimare, illuminare. Aspettare e aspettare. A volte ce ne dimentichiamo pure, flirtiamo con più semplici amori.  Solo che poi, quando compare quasi improvviso un bocciolo rotondo che prelude alla fioritura, lo accogliamo come un soldato tornato dalla guerra, che non aveva mai risposto alle nostre lettere accorate e che ora è lì, vivo davanti a noi. Così tutto ricomincia, in un logorante tira e molla che può durare una vita intera e che ogni volta è come se fosse la prima.
Perché le orchidee, quando si degnano di rifiorire, è fatta. L’incantesimo è compiuto e ti stregano per sempre, con il dubbio che non siano del tutto sincere, ma poi chissenefrega.

p.s. Ovviamente ci sono quelle (o quelli) che trattano le orchidee come i sedum o giù di lì, e nonostante questo hanno fioriture costanti, epiche e generosissime. A loro va la mia invidia, e un’altra storia da raccontare.